La
vide arrivare, con qualche minuto di anticipo sull’ora pattuita per una
felice combinazione, più unica che rara.
Il treno, che normalmente portava ritardi minimi di almeno dieci minuti
era scivolato, quasi silenzioso nel rumore di fondo della stazione
carica di pendolari, al binario di fianco a quello preannunciato.
L’annunciatrice della stazione probabilmente era assente perché nessuna
voce annunciò né l’anticipo di oltre cinque minuti sull’orario regolare,
né la variazione, decisa probabilmente all’ultimo istante del binario a
cui il treno era attraccato.
Ebbe un sussulto, perché era preso dai suoi pensieri, quando alle spalle
lo colse la voce. Di lei che lo chiamava.
La voce aveva una miscela sovrapposta e arrotolata che racchiudeva in sé
sia quella risata che lui ben ricordava nelle loro poche telefonate,
quasi un’eco sorridente più che una risata, un sorriso di fondo, sia
un’incertezza leggermente intimorita. Simile a quando si inizia un
discorso, si è un po’ agitati, e si deve trovare l’abbrivio perché le
parole scorrano solo un istante dopo più facili e concatenate. Il ciao e
il suo nome assunsero così quasi il tono di una domanda più che di un
saluto.
Lui in quel momento, quando lei giunse inaspettata, pensava.
Ed ebbe davvero un attimo di soprassalto alla voce che lo chiamava.
Visibile, corporeo, non solo interiore.
Pensava a mille episodi, loro, nel tempo, non srotolandoli nel senso
normale temporale in cui tra loro si erano connessi e verificati, ma
vedendoli come se fossero tessere parallele, deposte al suolo, di un
mosaico che poteva comporre, scomporre e ricomporre ancora creando mille
immagini irreali. Tutte belle, al punto che non si decideva a dare un
ordine finale ai suoi pensieri, e appena terminato un percorso
allineando tessere, situazioni, emozioni e parole, lo sconvolgeva e
ricominciava.
E tutto prendeva forme nuove.
Avrebbe potuto continuare all’infinito o almeno per una quindicina di
minuti ancora se quel treno avesse rispettato il suo ritardo abituale,
di cui per altro l’uomo non era nemmeno a conoscenza.
Forse, scoprendo quel ritardo pendolare nella sua attesa avrebbe avuto
un sopravvenire di ansia, che avrebbe impedito di terminare l’ultima
ricomposizione di un amore.
Quella che se fosse stata un quadro, coi toni blu e le figure disassate
sarebbe stata, per toni e dissezione, un bel Picasso dell’epoca
migliore.
Invece no. La voce giunse e si inserì perfettamente nel mosaico come se
ogni tessera aspettasse solo il suono e il suo inatteso arrivare.
Il viso il sorriso e il bacio pure.
Le mani posate sui suoi fianchi nell’atto di accogliere e abbracciare.
Il corpo di lei, sotto gli abiti, percepibile, caldo e pulsante anche
attraverso il tessuto a strati autunnale, che avvolgeva, maglia,
leggerissimo maglione a dolcevita e giaccone di cotone impermeabile,
l’ansa delle reni. In cui le mani si erano adagiate in modo del tutto
naturale.
Tutto trovò incastro perfetto, nell’immagine blu che stava ricomponendo
solo un attimo prima nei pensieri. Come se tutto, persino gli abiti
scelti da lei che certamente lui non poteva conoscere prima e nemmeno
immaginare sarebbero stati quelli, avessero avuto una loro collocazione
sempre e da sempre lì.
Riconobbe persino il sapore, dopo che il bacio, impacciato sulle guance
accostate, aveva trasformato la carezza delle gote in incontro di
labbra, un poco tese. Si erano sciolte subito, zucchero e miele in acqua
tiepida, saliva che ricomponeva da due un solo sapore.
Scoprì che entrambi avevano iniziato quel bacio chiudendo gli occhi.
Come li chiudi dopo la salita del carrello in cima alla più alta arcata
di un ottovolante, nell’attimo senza tempo e senza moto, prima che
incominci a respirare, nella corsa sempre più forte, non coi polmoni ma
col battito impazzito del cuore.
Però.
Quando li aprì, così vicini ai suoi, da non permettergli nemmeno di
mettere a fuoco il viso per quel che lo scorcio stretto e troppo
aderente consentiva, vide che anche lei, probabilmente in simultanea,
aveva aperto i suoi. E incominciò così.
Per un attimo smisero entrambi di respirare.
E incominciò così una giornata, che nessuno dei due si domandò, da quel
momento, stesse portandoli dove.
Si persero nella città, con la sensazione che lì, per quelle vie,
stretti e vicini, fossero abituati a muoversi da sempre. Ebbero
familiarità di ricordi condivisi persino le mille cose, le vetrine, le
persone che mai prima avevano modo di vedere insieme. Ne risero quando
lui le chiese se anche lei avesse avuto la sensazione di rivivere
qualcosa di lontano.
Di già vissuto vicini.
Come se andando verso la loro vita, della durata di una piccola singola
giornata - in fondo le farfalle si dice che vivano anche meno, eppure
indossano da subito i loro più splendidi vestiti e colori – l’uomo e la
donna vivessero in un’eco.
Le prese la mano, quando quasi scavalcarono due auto parcheggiate male e
salirono sul marciapiede. E scivolarono via, non si sa nemmeno bene
dove, annodandosi le dita, un pugno d’aria stretto in mezzo, palmi di
conchiglia, a farsi caldo e battere e pulsare di una piccola vita.
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